Nonostante la sua ferma estraneità al culto, era attratto da quella chiesa, la cattedrale di Riverside. Invero quella non era una chiesa, piuttosto un luogo d’accoglienza, la quintessenza dell’anima di New York. Ogni qual volta Mark (alla nascita Marco) avesse tempo libero, ed era caso raro, o fosse particolarmente travagliato faceva un giro lì, in quell’edificio laicamente sacro, costruito sulla scarpata affacciata sull’Hudson, tra West Harlem e la Manhattan Valley, difronte alla Columbia, agli antipodi cittadini della sua casa e del suo ufficio. Un’ora ad andare, un’ora almeno per tornare coi mezzi pubblici. Si diceva ateo con una fermezza che nascondeva lo smarrimento di una ricerca indefinitamente vana, che lo lasciava in quel vuoto.
Capitava che andasse a Riverside senza una intenzione precisa e senza un tempo preciso. In risposta a un richiamo senza voce, senza definizione. Rifiutava di pensare si trattasse di un’attrazione mistica o una spinta intima, rimossa dalla consapevolezza, verso quella fede che aveva espunto mille anni prima. Era, tuttavia, attratto e scosso dal mistero della sensazione che lo pervadeva non appena valicava l’uscio dell’imponente chiesa.
Quando era lì, però, quando era tra i banchi e le colonne e le sculture lo assaliva la fretta, la pulsione opposta, quella di uscire. Uno smarrimento assillato da pensieri strambi: “ma non capisco niente di arte, ci devo tornare dopo aver studiato”, “ma quanto tempo sono già stato qui? Che ci faccio? Devo uscire?” Anche se era appena entrato. In fondo, poi, pensava rassicurandosi, mi sento a disagio, non è il mio luogo, non so che fare, sono, appunto, fuori luogo. Come se poi esistesse un codice a lui ignoto per stare nelle chiese, visitare una chiesa, raccogliersi in chiesa.
Quel giorno non andò così. Non si sentì fuori luogo. Si sentì investito da un peso morbido che lo indusse a sedersi. Cercava di ritrovare i pensieri del disagio di tutte le altre volte, quello delle visite fugaci, quelli che lo spingevano a uscire pochi attimi dopo essere entrato. A lasciarsi dietro la chiesa come un desiderio inoppportuno, come la conferma della propria inadeguatezza alla fede. Si ripeteva questi pensieri senza pensarli mentre avvertiva l’esigenza di rimanere a pensare altro, ad avvertire una nuova tranquillità. Il peso morbido. Il peso era la lucidità con cui ripensava se stesso nelle relazioni con madre, padre, compagna, amici. La morbidezza era l’accusa che per la prima volta avvertiva di voler imputare a ciascuno di loro. Era, la morbidezza che alleviava il peso, lo scrollarsi il sentimento di colpa che si imponeva meccanicamente per concedere attenuanti e comprensione a ciascun prossimo. Non che fosse improvvisamente indulgente con se stesso, ma viveva un nuovo equilibrio in cui riconosceva e imputava responsabilità a persone che sentiva opprimere la sua vita. Un’oppressione autoimposta dal porsi in sistematica condizione di responsabilità.
Gli ritornò in mente il j’accuse di Zola, di cui da pochi si era occupato per la casa editrice per cui lavorava. E restando fisso sulla panca della Riverside, guardando a terra il buio attraverso una grata arabescata, lo recitò in silenzio come una preghiera:
1) ti accuso, Mena, per avermi cambiato nome, per avermi imposto di sentire quando non potevo sottrarmi, per aver alterato nella narrazione il mio essere. Ti voglio bene, ma ti accuso. Ho il coraggio di dirlo senza risentimento;
2) ti accuso, Nicola, per avermi ignorato, per avermi nascosto te stesso, per le tue incapacità, per le assenze precise e le presenze inutili, per non esserti piaciuto. Ti voglio bene e mi manchi, ma ti accuso;
3) ti accuso Addolorata per aver mortificato e annichilito ogni tentativo di stare bene con te. Per averti tradita, per averti rispettata, per averti difesa, per averti stimata. Ti accuso per avermi sottratto mille anni, risucchiato l’esofago, trafitto i miei slanci, per avermi umiliato e essermi umiliato. Ti accuso per avermi costretto, per la fatica che ho fatto, per i pesi e le solitudini. Mi impongo di rispettarti a prescindere da te, forse ti sono affezionato, non ti voglio più bene e ti accuso, ma ti risparmio odio e rabbia perché non voglio più dedicarti alcuna emergia.
Aveva altre imputazioni e altri imputati, ma vide uno sbrilluccichio sulla girata opaca. La luce era rimbalzata su una delle sue lacrime. Per la foga con cui veniva fuori il jaccuse, non si era accorto di star piangendo.
Si asciugò le guance, deglutì e uscì. Si stese sulla scarpata verde. Ascoltava il fiume scorrere mentre raccoglieva le forze. Poi si incammino verso la 119ma e si fermò ad aspettare l’autobus verso casa. Nell’attesa vide che Irene lo aveva chiamato 4 volte e messaggiato 18. Voleva sapere se fosse confermato l’appuntamento a cena e se fosse possibile posticiparlo di mezz’ora.