Usi ad errare per tavole, campagne, monti, valli, colline siamo allergici allo star system degli chef, nemmeno avendo il tempo di poter assistere alle loro esibizioni in tv.
In un giovane “bracciante” di cucina, come lui stesso si è definito schernendo ogni tentativo di apprezzare il suo valore ed il suo sapere, abbiamo cercato qualche verità e, celatamente, di scoprire maldicenze e cattivi costumi dei grandi artefici dell’alta cucina.
Davide Picariello, giovane cuoco, vorace di conoscenza gastronomica ed “esperienze palatali” d’avanguardia, ha gran personalità, sicurezza di pensiero e dissacra luoghi comuni e miscredenze. Si apre ma misura le parole.
L’unica frase forte che siamo riusciti a strappargli è su Gualtiero Marchesi, il decano degli chef italiani “l’impostazione alla Marchesi, per il quale la cucina è rigore, silenzio e sottomissione” è sbagliata, “la cucina deve essere luogo di cultura e ci vuole confronto psicologico non solo gerarchia. Un grande chef legge in ogni ragazzo il suo potenziale”.
Conoscenza, sapere, intellettualità sono il leit motiv della discussione con Picariello ed il fuoco stesso della sua passione: “ero a cena da un mio amico e per fumare una sigaretta mi allontanai dalla tavola. Nello studio del padre, un uomo con una passione viscerale per la cucina, mi imbattei in una poesia sul cibo. Scoppiò lì il mio amore per la cucina concepita come qualcosa di poetico, un linguaggio artistico”.
C’è un aspetto sensoriale quindi e un aspetto culturale nell’alta cucina?
“Per me la cucina non deve essere nutrimento ma emozione, stimolo, cultura. Può arrivare ad essere arte. La cucina d’autore ha un linguaggio autonomo perché non emula, non copia ed ha radici solo nella capacità creativa dello chef, capace di combinare ingredienti di diversa origine e di contaminarsi con diverse esperienze.”
Certo, questa è una bella definizione ed attribuisce allo chef un grande prestigio. Operativamente, però, chi è lo chef? Hai appena ultimato un percorso in una cucina stellata e quindi hai una cognizione diretta di cosa fa e come lavora uno chef.
“Lo chef è il cuoco che, dopo lunghissima gavetta, ha raggiunto una grandissima coscienza di se, delle sue capacità tecnico pratiche ed ha maturato un suo linguaggio. In cucina coordina, è un direttore d’orchestra il quale per poter dirigere deve conoscere approfonditamente ogni aspetto della musica.”
Va bene, ma il direttore d’orchestra dirige opere composte da autori. In cucina chi compone?
“Nell’esperienza al Metamorfosi di Roma ho assistito ad un grande lavoro di squadra tra lo chef, il colombiano Roy Caceres, che lanciava l’idea ed i suoi due assistenti, Ciro Scamardella e John Regefalk che si occupavano della struttura del piatto e ne dipingevano le sfumature. Tre grandissimi creativi che avevano già in mente ben chiaro il “taste” che volevano ottenere. Noi eravamo i braccianti e davamo vita al loro creato mentale. La costruzione di un piatto è un lavoro di squadra. La cucina di uno chef è un continuo calderone di idee con ricette che vengono create dal nulla.”
E’ rimasto “scioccato” Davide per il lavoro di gruppo ma anche per aver preso contatto e visto davvero “che cos’è una cucina d’autore, una cucina con una firma e un’identità reale che Caceres ricercava continuamente in se”.
La creatività è solo questione di talento?
“Quando acquisisci coscienza delle basi, conoscenza degli ingredienti e delle tecniche moderne e passate puoi iniziare ad essere creativo. Non c’è creatività in cucina senza tantissima esperienza.”
Provo a suscitare nel giovane cuoco una critica allo star system degli chef stellati ma resto disarmato dalla lucidità di Picariello che non vuole essere chiamato chef e che però dosa le parole come in cucina si dosano gli ingredienti, per creare equilibrio: “Lo star system ha una doppia faccia. Innanzitutto ha dato una dignità ed una considerazione sociale ai cuochi che prima non avevano. L’altro aspetto, questa volta negativo, del fenomeno del cuoco star è quello di non far rendere conto i ragazzi che ci vuole tanto sacrificio o di pensare che cuochi ci si possa improvvisare.”
Ritento la provocazione, stuzzicando su Cracco e sulla sua (presunta) caduta sulla patatina fritta di cui è divenuto testimonial, proponendo addirittura ricette di alta cucina a base di chips imbustate. Nulla. “Tanti criticano Cracco per la patatina, io personalmente lo vedo un grande che è riuscito a creare una sua identità e un piccolo impero con le proprie mani, con il suo sudore, privandosi della sua stessa vita per seguire la passione. Perché questa è la verità: i cuochi devono mettere in gioco la propria vita per seguire la propria passione, il proprio lavoro. Le cucine sono santuari dove tu entri in silenzio e ci resti in media sedici ore al giorno. A volte ci dormi anche al ristorante. Si annulla tutto lì e può non rimaner spazio per una vita privata.”
Territorio è oramai una parola usata ed abusata in ogni contesto. Davide, tagliente, ci dice “Sono affascinato dalle culture che hanno un legame forte con la terra ed ho studiato antropologia prima di entrare in cucina. Il legame con la terra è molto forte in me. La cosa che più adoro è ricercare prodotti che sono legati alla storia di un territorio. La territorialità, però, viene confusa con la cucina tipica o con il chilometro zero. Territorio per me è l’Italia con la sua straordinaria ed irraggiungibile diversità di produzioni agroalimentari. In altre parole occorre evitare di considerare territorio sinonimo di locale. I francesi lo hanno capito da secoli, gli spagnoli da decenni, in nord Europa più recentemente. Il Noma di Copenaghen, il ristorante più importante del mondo guidato da René Redzepi, è nato da un finanziamento pubblico finalizzato alla valorizzazione dei prodotti danesi, non solo di Copenaghen e delle zone limitrofe.”
Legato alla sua città, Picariello non può far a meno di essere lucidamente severo nell’analisi della ristorazione: “La tradizione beneventana è una tradizione grassa, fatta di zuppe, cacciagione, pastorizia. Il cinghiale è il simbolo della città, la carne di cinghiali locali c’è ma nessun ristorante la propone. Mi rattrista molto che lo scarpariello, piatto meraviglioso, debba essere considerato piatto tipico, essendo un piatto di origine napoletana importato a Benevento”.
Chi ha influito sino ad oggi nella tua formazione?
Sicuramente mia madre che mi ha dato il palato, l’imprinting. I sapori della nostra infanzia sono i sapori assoluti che ci serviranno per tutta la vita. All’inizio, poi, ho lavorato per Peppe Cacucci, che aveva una cantina letteraria. Non mi ha dato niente di tecnica di cucina perché non è un cuoco, però mi ha fatto scoprire il buon vino e i prodotti di qualità. Poi Nicola Miele, grande chef e grande formatore del Gambero Rosso, un uomo aperto al confronto e capace rapportarsi ai suoi collaboratori ed allievi.
Non si abbandona alla banalità, Davide, manco quando gli chiedo del piatto preferito o del piatto perfetto: “Non esiste un piatto perfetto. Esiste un piatto completo capace di coinvolgere tutti i sensi e far vivere durante la masticazione continue emozioni, interrogativi. Insomma che fa accendere la mente. Goloso, estremo, sensoriale”
Forse ammiro questo ragazzo perché, lo scopro solo ora, condivido con lui l’idea del piatto completo.
articolo apparso sul ROMA del 17 gennaio 2015