Un sentimento, un’aspirazione è cessata con la notizia del premio Mario Soldati e con la felicità che ne è conseguita.
Ho inseguito per cinquant’anni, perché tanti ne ho oggi, un amore che era l’aspirazione di una condivisione, della condivisione di entusiasmo, commozione, gioia, dolore.
Ho inseguito per cinquant’anni un abbraccio come quello di cui parla Morrissey in Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me. Questo anelito è rimasto sempre tradito, come nella canzone, non da un tradimento o più tradimenti, da una donna fedifraga. No, nulla di ciò. Tradito dalla delusione, delusione di non aver mai trovato riscontro a quel desiderio di abbraccio, di affetto, di bacio.
Ho trovato molte condivisioni intellettuali, ho trovato alcuni momenti di condivisione emotiva, soprattutto in contesti sociali, non l’ho mai trovata appeno in un contesto intimo. L’ho cercata nelle donne, negli amici, un po’ per necessità, un po’ come ripiego, l’ho cercata anche nel sesso, con soddisfacimento mio e entusiasmo di qualche partner.
Con la notizia del premio, giunta venerdì 9 novembre 2018, mentre ero in un pub a Sant’Agata dei Goti, dopo la presentazione del libro “La Selva” di Giancristiano Desiderio, mi ha pervaso una felicità tale da rendermi finalmente esplicito quello che più volte ha tentato dirmi, forse non sempre esplicitamente, la mia psicologa, la mia amata psicologa. E cioè che non è detto che nella vita sia necessario o anche solo preferibile trovare in un rapporto sentimentale il proprio equilibrio. Se ne può prescindere, se ne può prescindere! Basta essere felici, soddisfatti della propria opera ossia di ciò che si realizza, quello che si fa, del lavoro che si svolge, del lavoro sulla propria vita.
Non è egoismo, è una condizione di equilibrio interiore, una condizione di soddisfacimento, di appagamento che rende accettabili rapporti e relazioni che non siano perfettamente quelle auspicate. Non dico che vada bene tutto, dico che può bastare l’amore imperfetto, la donna non ideale, possono bastare e basta ad acquietarsi l’esser soddisfatti.
In fondo questa occasione, questo premio, mi fa riflettere anche sul mio lavoro. È vero che è stata una scelta libera quella di fare il commercialista e in parte una scelta contro la mia famiglia, altro contesto in cui non ho trovato mai l’affetto che cercavo, la comprensione, la condivisione, ma non è il mio lavoro ideale, se non in parte. Mi ci sono buttato a capofitto ed essendo dotato di media intelligenza ci sono riuscito.
Ho creato uno studio dal nulla in una città in cui sostanzialmente gli studi si ereditano o si creano attraverso rapporti pericolosi e commistioni con la politica, con i giudici, con certi contesti sociali cui sono rimasto sempre estraneo, sia per volontà che per incapacità. Non sono capace di aver relazioni utilitaristiche, non è il mio campo, non è il mio settore, non è il mio forte.
Non ambisco a trarre conclusioni universali sull’uomo; non sono un filosofo, non sono uno scrittore, non sono nessuno. Racconto come mi sento ora che sto per andare a Torino a ritirare un premio letterario, la cui giuria è presieduta da uno dei fondatori, con Arrigo Olivetti e Mario Soldati, del Centro Pannunzio. Un premio #oltresferracavallo, a Torino, ottocento chilometri #oltresferracavallo, assegnato da una giuria composta da autorevoli giornalisti e esponenti del mondo della cultura.
Questo racconto, che è il racconto di un momento in cui ero solo, mi sentivo solo e felice, è una grande bugia. L’ho scoperto ancor prima di ritirare il premio, alle 17.17 di un venerdì pomeriggio. Il desiderio di abbraccio è insopprimibile e non basta alcuna altra felicità o la sopravvivenza a una malattia mortale per sotterrarlo.
Occorre una ulteriore postilla che poi scriverò