Odissea gastrica

Le ho provate tutte negli ultimi quindici giorni ma è andata male al punto che l’Odissea Gastronomica, allegorico titolo di questa rubrica, si è materializzata sotto forma di odissea gastrica. Li ho provati tutti: il bistrot, il ristorante tipico delle zone interne, la cucina tradizionale siculo-napoletana (una novità assoluta), il gastro-pub (si fanno chiamare così ora) ma non c’è stato verso di trovar felice approdo. Il tentativo di offrirvi qualche gustosa novità mi è costato almeno tre notti insonni e un cratere di rabbia ribollente nel duodeno, esito della introiezione di stizza per manifestare un garbo di facciata anche innanzi alle imposture più eclatanti.

La colazione di lavoro nel cuore affaristico della città, a quattro passi dal mare pare possa insolitamente avere risvolti gustosi. Pulizia, ordine, design, prestigiose bottiglie di vino accuratamente esposte, sofisticato banco dei salumi e dei formaggi, posate acrobatiche, di quelle insomma che fatichi ad impugnare e non ti è chiaro come si poggino nel piatto, menù declamato a voce che sostituisce quegli odiosi ed appiccicosi quadernetti plastificati. Tra le varie proposte spiccano gli gnocchetti sardi con fave e provolone del monaco ed il carpaccio di vitellone bianco dell’Appennino. Gli gnocchetti obiettivamente sono buoni, ben cotti intendo. Il colore tradisce le fave che, nonostante il fiorire di quelle fresche, sono secche; il provolone, infine, deve esser rimasto in convento a pregare coi monaci, potendosi attribuire ad una provoletta fresca fatta la massa di scaglie sparse sulla pasta. Il carpaccio, per finire, è una banale quanto volgare bresaola con tanto di cuticola artificiale ancora ben sistemata sul bordo. Delle smargiassate del maitre per raccontare le pietanze appena descritte è meglio non parlare.

Si è portati, talvolta, a pensare che tra i monti di Irpinia e Sannio possa trovarsi comodo rifugio in focolari sinceri, cucine generose, persone genuine. Spesso è vero ma non sempre. Al centro di un antico borgo giace questo ristorante che qualcuno segnala per la grande abilità nel preparare e cucinare le carni. Piatti semplici, dunque, che dovrebbero esaltare, per la maestria della mano che agita la brace, la qualità della materia prima. Mi affido al proprietario/chef/sommelier. Si inizia con una lunga teoria di pizze che non vengono rispedite intonse in cucina solo per grazia dell’atavica fame del cronista, esacerbata per di più da un tentativo di dieta. Lo spietato oste, a dispetto della buona moda di “pizza & falanghina” di cui abbiamo raccontato un paio di settimane orsono,  abbina d’imperio un aglianico avvilito da una pessima vinificazione e da una buona dose di vitigni altri. La carne, cotta nel forno delle pizze piuttosto che alla brace, si presenta con la consistenza di un corpo stopposo ed il gusto di un liofilizzato plastico preparato per le missioni astrali della Cristoforetti.

Di ritorno sulla costa, il palato e non solo si infrange contro i piatti di una cucina fusion a cavallo del Tirreno. La lunga declamazione della cura e della misura da provetto chimico con cui il cuoco prepara l’intingolo di quindici erbe aromatiche siciliane, pomodori secchi e pomodori del piennolo risparmia di precisare che la quantità di sale e di olio è totalmente fuori controllo. Le strie aranciate che gli spaghetti lasciano nel piatto dopo poche forchettate lasciano figurare le severe sferzate cui è sottoposto il povero, inerme, innocente zirbo che se ne lamenterà per diverse ore.

Abbandono, disperato, le tavole formali dei ristoranti per provare il pub condotto da nuova e giovane gestione che punta su hamburger gourmet, birre artigianali, piatti preparati in base alla disponibilità del mercato (che barba questo refrain). Prima di ordinare, come di consueto, chiedo una birra. Il cameriere esplode un “ae, ora non è come prima, non è facile, vi spiego”. La spiegazione, cui mi sottopongo con pazienza eroica, contempla la precisazione di una “nuova metodologia produttiva che si chiama IPA“. Si tratta non di una metodologia ma di una tipologia di birra che esiste da sempre e che ora, però, è di gran moda ma evito di controbattere. Ascolto fantasticazioni su blend, abbazie, bionde, filtrate, non filtrate e non so più cos’altro. Soprattutto, però, apprendo il neologismo “torbicità” che starebbe ad indicare la torbidità della birra artigianale.  Una narrazione astrusa ed artefatta che riferisce di una straordinaria pasta introduce il piatto forte del giorno: paccheri al pomodoro. Unti, insapore, indigesti.

Ancora vivo nonostante tutto, parto per il prossimo approdo con la speranza di poter raccontare qualcosa di buono la prossima settimana.

 

Articolo apparso sul “ROMA” del 25 aprile 2015 nella rubrica Odissea Gastronomica

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