Sabadino degli Arienti nel 1483, in una delle sue sessantuno “Novelle Porrettane” (disponibili per la consultazione in rete grazie al sito britannico Forgotten Books), racconta di come il duca Ercole I d’Este si burlò del “camariero Bondeno”, il quale supponeva di poter essere fatto cavaliere. Al culmine della cerimonia, nel mezzo della pompa magna che accompagna l’attimo in cui le insegne del “camariero” aspirante nobile vengono svelate, piuttosto che scudi e spade incrociate appare, suscitando incontenibile ilarità, un capo d’aglio effigiato sullo sfondo di un blu nobiliare. L’aglio «sempre è cibo rusticano, quantunque alle volte artificiosamente civile se faza, ponendose nel corpo de li arostiti pavari», avverte il degli Arienti. Il capo d’aglio, dunque, assurge nella novella a simbolo di una improponibile ascesa sociale.
Carlo Cracco, a distanza di oltre cinque secoli, è finito come Bondeno, uccellato per un capo d’aglio in camicia impiegato per preparare la “matriciana”. In verità, se quello spicchio bianco velato di buccia sia mai stato materialmente soffritto per preparar, nelle luccicanti e chirurgiche cucine cracchiane, il famigerato sugo mai sapremo, giacché il celebre Patachef veneto, che così simpaticamente ribattezziamo atteso il suo ruolo di testimonial di una nota e popolare marca di patatine fritte imbustate, ne ha solo parlato in una trasmissione televisiva. Tanto è bastato, ad ogni modo, per scatenare la reazione severa e maliziosa dell’Amministrazione Comunale di Amatrice che si è dichiarata “sconcertata”, proclamando che la “amatriciana” si prepara senz’aglio. “La tradizione dell’amatriciana ci appartiene” afferma prosaico il cordiale e disponibilissimo Sindaco Sergio Pirozzi, che non ne fa una questione di gusto: per noi l’amatriciana e i suoi ingredienti “possono essere un volano, tant’è che abbiamo di recente varato un regolamento per l’assegnazione della denominazione comunale”. La via amatriciana alla crescita, insomma, altro che Tsipras.
Il PataCracco, del resto, assalito dal clamore mediatico, combina un patatrac e maldestramente precisa, involontariamente scudisciandosi di sciocchezze: “la cucina è libero arbitrio e io me la sarei cucinata così” e poi “la tradizione va rivisitata”. Rivisitare la tradizione con l’aglio, dunque; diciamolo sottovoce e non facciamoci sentire da Ferran Adrià!
La polemica è assai triste perché denuncia il dilagante approccio superficiale ed esclusivamente mediatico alla cucina ed al gusto. Non conta il sapore, vale il clamore.
L’Amministrazione di Amatrice, pure apprezzabile per il riguardo riservato produzioni locali, è parsa più interessata a farsi un po’ di pubblicità gratuita a spese del grande Patachef che a difendere l’autenticità di un sugo. Pure va osservato che la tradizione, nel gusto come in ogni altro ambito, degrada a conservazione riduttiva e marcescente, finendo col consumarsi, quando si pretende di isolarla da contaminazioni. Un approccio più evoluto alla tradizione, passi l’ossimoro, avrebbe al massimo richiesto di spiegare perché mai il vago sentore di un aglio soffritto in camicia oltraggi il gusto corposo di quel sugo, se mai l’oltraggi e noi pensiamo di no.
Il capo d’aglio di Cracco e prima di lui di Vissani, che in un video di due anni fa su youtube include l’aglio nella ricetta dell’amatriciana, e prima ancora di infiniti altri cuochi professionisti e non, è il bulbillo tipico della nostra cultura gastronomica oltraggiata piuttosto dalle amatriciane in scatola o liofilizzate il cui gusto è una vera bestemmia.
Il Patachef, in fondo, con le derisioni di questi giorni paga il dazio ad un sistema di cui fa parte insieme ai suoi amici master-chef da studio televisivo con i quali diffonde quotidianamente zacchere come queste: “coniugare tradizione e innovazione è facile perché tutto avanza” oppure “abbiamo un’origine forte, importante e diversa perché chi abita al nord ne ha una, chi abita al sud un’altra e chi abita al centro un’altra ancora e in mezzo sono ancora diversi e il fatto di non essere omologati ci consente di esser più forti e più ricchi”. È possibile, anzi è certo, che ciò aiuti il loro portafoglio; è altresì sicuro che il loro chiacchiericcio (cracchiericcio?) mortifica la nostra intelligenza, la nostra cultura gastronomica, che è unitaria, e le loro stesse figure. Carlo Cracco è un ottimo chef e del resto non si collabora con Marchesi o si guida la cucina dell’Enoteca Pinchiorri a Firenze, senza esserlo, fuori dalla cucina rovina a Patachef che d’ora innanzi immagineremo con uno spicchio d’aglio ricamato sul camice.