Luigi Moio, nato a Mondragone, in pieno ager falernus, cresciuto tra le vigne e le cantine paterne ha declinato la propria vita lungo il solco della tradizione familiare e della inclinazione per lo studio.
Oggi è uno scienziato di fama internazionale, autore di studi fondamentali sulle sostanze odorose degli alimenti e del vino. Come lui stesso ha affermato in un passaggio dell’intervista che molto cordialmente ci ha concesso, «lo studio sulle molecole odorose del vino responsabili della tipicità è tuttora uno dei più citati al mondo».
Il professor Moio, ordinario di Scienze e tecnologie alimentari presso l’Università Federico II di Napoli, sarà a Benevento mercoledì prossimo 18 gennaio, per presentare “Il respiro del vino”.
Si tratta di un «saggio di divulgazione scientifica che ha l’ambizione di intercettare un pubblico, quello degli appassionati di vino, ben più ampio della consueta cerchia di studiosi della comunità scientifica con cui mi confronto abitualmente. Ho scritto con l’obiettivo di alleggerire quanto più possibile la parte scientifica attraverso la narrazione e gli aneddoti».
In effettivi l’obiettivo pare più che centrato. Nelle prime settimane dall’uscita si è giunti alla terza ristampa e diecimila copie vendute.
Professore, leggendo alcune sue parole sul libro e sul vino in generale si nota un’oscillazione tra emozione e scienza.
Il vino ha una componente emozionale forte, senza dubbio. Il mio lavoro in questi anni è stato concentrato sulla comprensione delle molecole odorose ma anche l’analisi sensoriale come scienza, tesa a ridurre al massimo la soggettività. La scienza è bellezza perché aspira alla verità che è la bellezza assoluta. La verità non ha bisogno di memoria, di suggestione. Non ha bisogno di nulla.
Eppure c’è una diffusa tendenza a considerare la scienza nella produzione e nella degustazione del vino come un disvalore.
Il mondo pare abbia perso il buon senso. Non si possono risolvere i problemi tornando al medioevo. In Italia in particolare c’è un diffuso atteggiamento antiscientifico, ma è un problema generale che non riguarda esclusivamente il mondo del vino. Col vino, però, scherzano tutti perché non si muore istantaneamente.
C’è un problema anche di coerenza: vedo sostenitori della natura contro la scienza a bordo di auto tremila di cilindrata, viaggiare spesso in aereo, vivere in case riscaldate. Anche a proposito di biologico, biodinamico, naturale eccetera bisogna chiarirsi. Non si può fare dappertutto. È chiaro che se si ha una vigna su un colle ventilato, ben esposto, si lavora bene dal punto di vista agronomico, della cura della vegetazione, del vigneto, alla fine non sono necessari molti trattamenti. Viceversa se si pianta l’uva nel sud Brasile, per esempio, mi viene in mente perché ci sono stato il mese, occorrono 32 trattamenti perché piove sempre.
Quando le capita di leggere o ascoltare fantasiose recensioni sui sentori di un vino cosa pensa?
Sorrido, che devo fare. Il vino ha un valore estetico che bisogna essere capaci di cogliere. Posso leggerle un passo del libro, tratto dal capitolo finale “Privilegio della bellezza”?
Certo, faccia pure.
Per degustare un vino non sono sufficienti le conoscenze metodologiche, una vasta esperienza, una buona memoria olfattiva, ma occorre essere artisti. Senza disporre di una elevata sensibilità estetica e di una spiccata attitudine a cogliere la bellezza dei singoli dettagli che ci circondano è veramente difficile, se non impossibile percepire tutte le sfumature sensoriali e dunque emotive che il vino è capace di indicare a chi lo beve con passione, a chi si accosta ad esso non per soddisfare un bisogno primario, come la sete, ma il proprio desiderio di piacere.
Possiamo considerare il vino come un’opera d’arte a tutto tondo, poiché mentre possiamo fruire di un quadro, di una statua, di un museo, di una sinfonia di Behetoveen, di un film d’essai, di un capolavoro della letteratura, utilizzando uno o al massimo due dei nostri cinque sensi che lavorano all’unisono alla percezione della bellezza, nel caso del vino li usiamo tutti e cinque contemporaneamente impegnando così il nostro corpo e la nostra mente in modo complesso e totalizzante. Per me il vino è una manifestazione della bellezza.
Lei ha vissuto e avuto una intensa esperienza di studi in Francia. Qual è, se c’è, la differenza più rilevante tra Italia e Francia dal punto di vista enologico.
Ciò che in Italia in termini di crescita e divulgazione, anche ad opera dei sommelier, è accaduto negli ultimi venti anni in Francia accade da secoli. Sono avanti, hanno una sensibilità enorme, se pensiamo ai profumi, agli odori, all’estetica. Il vino è considerato qualcosa di bello più che di buono. C’è poi una grande organizzazione disciplinare che aiuta la produzione. C’è ordine e precisione. La Francia enologica è facile da capire, il vino si fa a Bordeaux, in Languedoc Roussillon, si fa in Borgogna, nella Champagne, nell’Alsazia, nella Loire, un po’ nella Savoia. Fine. Da noi si fa tutto dappertutto e ciascuno è convinto di essere il più bravo della galassia. I grandi vini, ad esempio, non è possibile farli dappertutto. E’ possibile piantare l’uva e farla fruttificare, altro è fare i grandi vini. Bisognerebbe esserne consapevoli.
Cambiamenti climatici, ci sono nuove zone del mondo che si aprono alla produzione di grandi vini?
E lei crede davvero ai cambiamenti climatici? E’ vero, la calotta polare si sta assottigliando e la temperatura aumenta, ma questo non è un cambiamento climatico né esistono nuove zone. Ci sono variazioni, ma occorre contestualizzare rispetto ai vitigni. Alcuni vitigni soffriranno di più altri di meno. I nostri vitigni del Sannio e dell’Irpinia che hanno maturazione tardiva, con le temperature più alte soffriranno di meno rispetto ai vitigni più precoci come gli internazionali, un Aglianico avrà vantaggi se il clima è un po’ più caldo, maturerà meglio e sarà meno tannico.
L’innalzamento della temperatura favorisce le zone a maggiore altitudine deve escursioni termiche sono maggiori, ma non è che siamo di fronte a cambiamenti improvvisi per fare il vino in Inghilterra anche se lì lo fanno. Ciò conferma solo che il vino è innaturale. Del resto il vino è stato scoperto per caso migliaia di anni fa. Qualcuno assaggiò del liquido zuccherino fermentato, dovette trovarlo inebriante e dirsi “che cosa bella”. Fu la prima esaltazione del vino.
Lei è anche produttore con la cantina Quintodecimo. C’è un legame con Benevento perché il territorio di Mirabella era il quintodecimo miglio da Benevento e Exsultet, il nome del suo Fiano, è anche un testo in scrittura beneventana.
Anche se rispetto le competenze e non oso addentrarmi nella ricerca storica o etimologica. C’è, comunque, uno profondo studio del territorio anche dietro la mia esperienza vinicola. L’Exsultet è un canto liturgico pasquale trascritto su una pergamena arrotolata. Negli Exsultet di Mirabella c’è un elogio alla laboriosità delle api e pare che all’origine del nome Fiano vi sia il nome Apianum, con il richiamo delle api. Da questo collegamento viene il nome del vino. Ciò che ora mi rende particolarmente orgoglioso è che il mio idolo Maradona, lunedì (oggi per chi legge, ndr) berrà Exsultet a Napoli, avendo scelto i miei vini. A Higuain, invece, manderei una bottiglia avvelenata.
Per chiudere, una domanda scontata. Ha un vino dell’anima?
Il Pinot Noir. Ho passato cinque anni della mia vita in Francia ed ho svolto lì ricerche importanti, riconosciute a livello mondiale. Al Pinot Noir sono particolarmente legato.