Pasquale Clemente è l’anima della Masseria Frattasi, cantina vinicola insediata a Montesarchio alle pendici del Monte Taburno che la sovrasta con imponenza. L’opificio è alle spalle di una masseria in pietra risalente al ‘700, splendidamente affacciata sul paese con un aia-terrazzo che offre un’impareggiabile vista sulla medievale Torre di Montesarchio. Per un amicizia tramandata dai rispettivi padri, Pasquale ed i suoi fratelli sono miei amici d’infanzia e su quell’aia ci sono cresciuto. E’ per questo, per una remora radicata nell’etica e avvertita forte nel contesto di un giornalismo specializzato, quello gastronomico, dominato da collusioni inconfessabili (ne ha scritto il decano Edorardo Raspelli giusto due settimane fa), che in tanti anni non ho mai scritto una sola riga su Masseria Frattasi e i suoi vini. Oggi è diventato irrinunciabile perché ha un valore giornalistico il progetto visionario che Pasquale Clemente sta portando avanti, dando manifestazione reale e tangibile alla sua formazione, alla sua passione, al suo temperamento e alla sua cultura. Uomo assetato di libri prima che di vino. Il ricordo più nitido che ho di lui risale a una quarantina di anni fa, eravamo piccoli, tiravamo calci e racchettate a palle e palloni su quella magnifica aia, correvamo tra i filari di vite e gli alberi di frutta circostanti; lui non era mai dei nostri. Quando sfibrati rientravamo, lo trovavo in un angolo dell’antica masseria affogato da fumetti, libri di storia e atlanti di geografia. Questa è l’immagine che mi si ripropone ogni volta che lo vedo e ogni volta che inizia a sproloquiare di Regno delle Due Sicilie, falanghina di Bonea, aglianico amaro appassito che i romani producevano sul Taburno, la sua montagna. La Valle Caudina e il Taburno, insomma, sono per Pasquale Clemente l’epicentro di una storia gloriosa di uomini e vini che ambisce a replicare con una dedizione incrollabile. Deve trovare radici in questo attaccamento viscerale alla terra ed alla sua terra anche il rispetto profondo con cui vi si approccia, recuperando pietre (i muri perimetrali della cantina sono rivestiti di massi calcarei), salvando alberi a discapito della sua stessa attività, coltivando ed edificando in armonia perfetta con l’ambiente.
Da anni, da quando ha lasciato il giornalismo per dedicarsi quasi esclusivamente alla viticoltura, il suo vero disegno è affermare il primato caudino nel Sannio, attraverso la Falanghina di Bonea, salvata in queste zone anche per opera di un antenato, l’aglianico amaro appassito, “primo amarone mai prodotto nella storia”, e recuperare alla viticoltura i terreni abbandonati nelle zone più impervie e incontaminate del versante sud-est del Taburno. Un disegno che ha a che fare con brani di poeti latini, racconti di vecchi agricoltori, miti e probabilmente anche leggende, che, però, nel suo enfatico racconto sono verità eroica, come ora definisce la viticoltura che sta sperimentando: viticoltura eroica di montagna.
Sono salito tra i boschi, attraverso rovi e valloni, tra perastri selvatici lungo sentieri impervi segnati dalle unghie dei cinghiali che cercavano la dolce uva di cui sfamarsi. Ho portato con me una bussola ed un altimetro, le vigne che sta provando a far attecchire su terreni pietrosi, piroclastici, sono esposte tutte a sud e dislocate ad altitudini variabili dai 670 ai 920 metri, in campi quasi inaccessibili tra querce secolari, rovi di more e rosa canina, tappeti di erbe aromatiche selvatiche che al calpestio sprigionano odori inebrianti. Una ricchezza selvaggia di piante, animali, sensazioni. Siamo saliti in un giorno cupo, sotto nuvole che parevano avvolgerci e nonostante questa cappa i colori erano intensi. Le foglie di vite a questa altitudine assumono tonalità diverse certamente anche perché qui i trattamenti in vigna sono pressoché assenti. Pasquale Clemente, tra l’altro, col supporto del suo vivaista, riproduce e impianta vecchi ceppi resistenti.
Le ultime terre del Taburno, prima che la nuda roccia prenda il sopravvento assoluto, costellate di masserie abbandonate e diroccate, lussureggeranno, insomma, nuovamente di vita e viti per l’opera visionaria di un uomo caudino, alieno dai ritmi e dalle regole di una modernità con cui ha faticosamente convissuto e che lo infastidisce (non ha, per dire, alcun account social) e con cui può dirsi sostanzialmente incompatibile. Pasquale Clemente, cui tre lustri fa, regalai non a caso, una lussuosa edizione di un antico erbario, è piuttosto compatibile con i ritmi e le regole delle piante e delle terre del Taburno. Pasquale Clemente è il viti-cultore del Taburno.
MERITIAMO MONNEZZA E TRIVELLAZIONI