La mia casa è sempre piena di polvere. Affaccia sul quadrivio più intasato della piccola città in cui vivo. Qui sotto, una ventina di metri proprio sotto il tavolo cui sono appoggiato per scrivere, convergono da tutti i punti cardinali i più che devono entrare o uscire dall’urbe.
Il martellio del rumore prende giusto tre ore o quattro di pausa, quando è sostituito dall’occasionale sciabordio dei pneumatici sull’asfalto. Per tutto il resto del giorno segue il rigoroso, alienante ciclo umano: brusio, schioppettio, baccano, fragore, schiamazzo e poi a calare, seguendo una scala inversa, via via che dall’alba si procede alla sera e alla notte. Ogni tanto il ciclo è alterato dai picchi di rombi o boati dissipati dalle fuoriserie di presumibili eleganti bruti al volante o al manubrio. Periodicamente, infine, si registrano variazioni musicali, per lo più durante il week end a notte fonda o di primo mattino durante i giorni feriali. Sono cultori di pessima musica sparata a palla (pare questo sia il loro slang) da impianti audio emittenti onde d’urto più che sinuose curve sonore.
Un impulso di vanità mi impone di precisare che la mia abitazione ha un affaccio bellissimo sul fiume Calore e sui monti del Sannio e del Molise. Quando mi faccio strada tra la polvere per affacciarmi, sono ripagato dalla vista per tutti gli starnuti allergici e gli attacchi d’asma che gli accumuli fuligginosi nascosti negli angoli più impensabili mi producono.
La quarantena qui ha portato pulizia e silenzio. Le sporadiche vetture paiono tutte avere motori docili, ovattati e pure le ruote devono essere di mescola ultramorbida, accarezzano il pavé. Il loro passaggio è segnato da un fruscio. E’ quasi emozionante, un segnale di vita vissuta. Ogni volta che colgo questi lievi transiti mi vien voglia di correre ad affacciarmi per accertarmi che non stia immaginando un’era precedente. E spesso mi affaccio davvero.
Ho scoperto, così, che le persone non fanno schifo come si tende a dire e come forse io stesso ho pensato (di più quando l’ululato dei clacson impazzava). Più volte in questi giorni di clausura ho visto le auto solitarie, al quadrivio desolato, ferme a un inutile rosso. Il semaforo è davvero superfluo, al più l’alternanza dei colori delle sue luci offre un riverbero suggestivo nei vetri zigrinati del mio balcone. Non c’è nessuno, l’auto è sola, correttamente canalizzata, ferma al rosso seppur nessuno sopraggiunga da nessun altra via convergente lì. L’auto è ferma e attende il verde con una disciplina che, vista dall’alto, appare disumana. Come di un pilota automatizzato che segua un codice: rosso = alt, verde = passare, giallo = boh (io non l’ho mai capito il giallo).
Ho scoperto, dicevo, che le regole in larghissima parte vengono rispettate anche qui, alla periferia del mondo italico, in mezzo al sud imbroglione, cattivone, fetentone. E il bello è che deve trattarsi di un’abitudine consolidata al punto da non ammettere eccezioni, neanche di buon senso. Giacché sarebbe buon senso passare, pur con prudenza, qualsiasi fosse il colore di un semaforo divenuto mero arredo stradale.
Ieri mattina ho rielaborato i dati del Ministero dell’Interno sulle sanzioni per violazione degli obblighi del distanziamento sociale. Sono, in tutta Italia, poco più di 160mila da quando è entrato in vigore il primo decreto (11 marzo scorso). Si racconta, in specie negli ultimi giorni, di una eclatante mole di infrazioni. Ma cosa sono 160mila multe per 60 milioni di abitanti? La calcolatrice mia, rudimentale, non me lo dice. E’ un percento infinitesimo.
Siamo migliori di come ci raccontiamo, l’ho capito affacciandomi al balcone in questi giorni di quarantena e quaresima.