Gli elementi del rito ci sono tutti: le regole, il mito, la relazione con la vita, la partecipazione emotiva. La sensibilità moderna, maturata e diffusasi dopo l’emancipazione dalla “fame” e, dunque, dall’urgenza di assicurarsi quanto necessario alla sopravvivenza (personale e familiare), induce alcuni a parlare di mattanza e molti a tentare di de-codificare alcune delle regole tramandate del rito.
Sto parlando del “rito del maiale” che quasi segretamente, tra dicembre e gennaio, nelle masserie delle nostre campagne, anima la vita, rinsalda le relazioni tra vicini, bagna di sangue la terra, riempie di carne le soffitte e le cantine. Quella “sensibilità moderna” alla sofferenza dell’animale oggi è al servizio delle politiche omologanti della Unione Europea, le cui normative, fondate su pretesi principi di tutela dell’ambiente o della salute pubblica, la cui violazione è puntualmente tollerata quando connessa ai processi produttivi delle big dell’industria agroalimentare, sostanzialmente vietano o rendono antieconomico il rito dell’uccisione del maiale. La salvaguardia del suolo e dell’ambiente è sacrosanta ma i costi non possono essere fatti ricadere sui piccoli agricoltori, pena la loro espunzione dal mercato e dalle terre. Il che, a ben vedere, è probabilmente il vero fine ultimo delle politiche agricole comunitarie.
Come tutti i riti anche quello del maiale è riservato agli adepti, non sono ammessi infedeli o estranei alla setta e poi, oggi, come accennato, questo è un rito quasi fuorilegge. E’ normale, dunque, la riluttanza ad ammettere ospiti in masseria il giorno prestabilito per la celebrazione; bisogna garantire la segretezza. Con il che il rito acquisisce l’ulteriore fascino del proibito e rafforza il legame tra gli appartenenti alla setta, i quali attraverso la propria resistenza sfamano le proprie bocche ed, inconsapevolmente, salvano una cerimonia della nostra cultura popolare, tramandando ulteriormente credenze e saperi non apprendibili diversamente.
Non ho origini rurali, ne ho parenti che “abbiano la campagna”, non c’è tra i miei ricordi d’infanzia l’urlo del maiale che avverte la morte imminente ed oppone ogni possibile resistenza a chi lo trascina fuori dalla stalla. Non sono stato iscritto d’ufficio, pertanto, a nessuna setta del maiale. Quest’anno ho trovato il giusto canale e sono stato finalmente introdotto come “osservatore” alla liturgia.
Il rito dell’uccisione del maiale è sostanzialmente identico in tutto il Paese. Il lavoro da fare è tanto ed è faticoso, occorrono molti uomini. Il rito è celebrato tra vicini, tra persone legate da vincoli di familiarità o con cui intercorrano relazioni già consolidate di sussidiarietà, di scambio di lavori ed attrezzi, magari. Mentre il maiale, ancora inconsapevole, vive gli ultimi minuti di una vita già segnata, arrivano alla spicciolata gli uomini, i sacerdoti, addetti alla celebrazione, ognuno con un ruolo diverso e preciso. Il padrone di casa prepara gli attrezzi, coltelli con lama e senza, tavolaccio, ganci, carrucole, sega. Nulla, però, inquina di angoscia l’atmosfera gravida di serietà compartecipata per il ponderoso impegno che attende gli uomini e le donne se non il calderone dell’acqua calda. Un vecchio bidone è posto trasversalmente sul fuoco di legni, sostenuto da un paio di mattoncini. Tutti materiali di recupero. Il fuoco brucia lento e costante. Nella parte superiore del bidone annerito dal caldo rovente e dall’uso ripetuto, c’è un’apertura, realizzata artigianalmente: dentro l’acqua bolle. Fa impressione. L’immaginario fiction dell’uomo cittadino, astemio di uccisioni di maiali, rievoca immagini di tortura di terribile e crudele sistemi di morte. A nulla di tutto questo servirà l’acqua bollente che verrà versata sul corpo già spento del maiale per ripulirlo dai peli. Il bruciatore, una sorta di mega accendino, sarebbe l’alternativa moderna e rapida all’acqua bollente. Il fattore, però, ci dice che con l’acqua calda il lavoro, faticoso e lungo, è più completo e la pelle (la cotica) non si annerisce. Ci vuole una gran maestria nell’uso di quest’acqua bollente, bisogna osservare la reazione del pelo e della pelle, lavorare con cura per evitare tagli. Le regole sono codificate ma non scritte. Una sapienza che si tramanda solo attraverso la partecipazione al rito. Una persona versa l’acqua, una pulisce l’animale una, invece si dedica solo alla testa ed alle orecchie, parti difficili che richiedono pazienza e maestria. Anche la pulizia delle zampe e l’estrazione delle unghie ha il suo segreto: tre immersioni nell’acqua bollente, non di più ne di meno.
Le donne partecipano al rito con ruoli specifici: raccogliere il sangue e pulire le budella in cui saranno insaccate le carni per i salumi, da seccare o affumicare in soffitta o in cantina.
Si può avvertire disgusto o terrore a leggere questa nota, ma l’angoscia che ci ha procurato il bidone dell’acqua bollente svanisce, stranamente, quando il rito inizia. Non c’è terrore, non c’è paura, non c’è nausea. Il rito del maiale è un rito per la vita e la sopravvivenza dell’uomo. E’ quindi una festa. Il fattore ha affrontato i sacrifici dell’allevamento della bestia, ha seguito con ansia la vita e la salute del maiale, destinato a vivere per morire. “Nell’ultimo mese si è dimagrito, da quando abbiamo ucciso l’altro non ha mangiato più e poi aveva una piccola ernia, se usciva fuori sarebbe morto ed avrei perso tutto” . Il fattore cura la bestia per assicurarsi il cibo per l’anno a venire. Il maiale che muore assicurava ed in alcuni casi ancora assicura la vita della famiglia dell’agricoltore: ci sarà da mangiare, ci sarà magari da vendere qualcosa e dunque un po’ di denaro per continuare il ciclo e la vita.
La fine, la morte dell’animale, dunque, rappresenta l’epilogo di un lungo impegno sacrificante, sopportato per la sicurezza dell’avvenire.
E’ festa si brinda mentre l’animale, decapitato e appeso per i tendini delle zampe posteriori, viene sfasciato; si mangia a crepapelle quando tutto è finito.
Questo rito di vita e di morte appartiene alla nostra identità culturale. La sua clandestinità rappresenta il paradigma della politica di omologazione di annientamento delle culture rurali che violentemente si tenta di estirpare. I contadini resistono, noi cerchiamo la genuinità delle produzioni locali, tradizionali e mangiamo, inconsapevoli, per lo più.