In un interessante articolo su ARTETECO il caro, fraterno amico Alessandro Paolo Lombardo, critico d’arte, video maker, giornalista e mio estremo confidente, discute criticamente il fenomeno food che ha invaso media tradizionali e nuovi, apprestandosi ad invadere anche il mondo artistico attraverso il grimaldello del food design.
Alessandro nella sua feroce critica giunge alla conclusione che, come avvenuto per il sesso la cui larga ostentazione ha prodotto un desiderio frigido e dunque inappagante, così l’iperdiscussione sul cibo “eccellente” produrrà un appetito senza fame, in un contesto di “culturalizzazione al servizio della disumanizzazione”.
Mi ha colpito, nel breve scritto di Alessandro, l’assenza della parola GUSTO. In una società (almeno quella occidentale, perché è di qui che stiamo parlando) che ha ormai soddisfatto il bisogno primario della nutrizione, il gusto è il lato umano dell’esperienza gastronomica.
Vi è senza dubbio nella discussione sulla cucina un eccesso di enfasi su concetti ideali ed ideologici che prescindono dall’esperienza edonistica del mangiare. Un’ipocrisia sempre più radicata costringe, infatti, a dover trovare giustificazioni etiche o morali a ciò che mangiamo con piacere o per piacere.
Il chilometro zero, ad esempio, cui Alessandro accenna, non a caso parlandone in termini di necessità, presumo da un punto di vista ecologico e morale, è una delle più potenti armi schierate contro il piacere della scoperta e della curiosità per ciò che non si conosce.
Bartolomeo Stefani, capocuoco alla corte di Mantova, nel XVII secolo stupiva gli ospiti facendo largo uso di prodotti fuori stagione e al termine del suo ricettario fa notare che « à certe occasioni ordino alcune cose, come per essempio sparagi, carchioffi, roviglia, ò piselli che vogliam dire, ne’ mesi di Genaro, e Febraro, e cose simili, che à prima faccia paiono contro stagione ma questo può sembrar solamente a chi non ha passato il fiume della Patria perché troppo gli piace il pane della Città natia. Costoro sappiano che chi ha valorosi destrieri e buona borsa, in ogni stagione trovarà tutte quelle cose, che io loro propongo, e ne’ medesimi tempi, che ne parlo». Destrieri valorosi e borsa piena, dunque.
Il piacere del cibo storicamente è sempre stato coltivato sulle tavole delle famiglie più abbienti che banchettavano, libere dalla necessità di mangiare, per stupire ed autocelebrare il proprio status. Bisognerà pur dirlo e dissipare il campo dalla mitizzazione dello street food, che fa schifo nel novanta percento dei casi, del mangiar bene a basso prezzo, dei piatti della tradizione che confondono la storia con il passato prossimo.
Il tam tam mediatico gastronomico contemporaneo, invece, si rivolge in larga parte ad un pubblico di massa che frequenta poco e male i ristoranti e che probabilmente non ha mai varcato la soglia di un ristorante stellato, assumento che la stella Michelin sia sinonimo di esperienza gastronomica di piacere superiore. Per pranzare nel miglior ristorante del mondo che pratica davvero una cucina legata al territorio (servendo anche muschi e licheni danesi) occorrono dai 200 ai 500 euro. Luoghi come questi, che sono i veri luoghi della cucina, producendo piacere e storia della gastronomia, non sono coinvolti dalla discussione di Alessandro.
Il cibo rappresenta un vero mercato globale perché tutti devono mangiare; l’enogastronomia è uno dei tanti ambiti in cui è commercialmente utile (de)formare la percezione di massa della realtà. Il tam tam mediatico mi pare inevitabile ed inevitabilmente corrotto da logiche commerciali. Prendiamo il caso (tutto italiano) del lievito madre. Oggi sarebbe possibile vendere merda se fosse fatta lievitare col lievito madre, tale è ormai la dissociazione tra buono e percezione del buono imposta dai media e dai “critici” assoldati dall’impresa.
Il banchetto della nausea, quindi, è già servito quotidianamente ed ha a molto a che fare con valori a-gastronomici e col marketing che ha assoldato schiere di giornalisti, cuochi, pizzaioli ed esperti.
L’omologazione di cui Alessandro, poi, parla a proposito delle polpette IKEA ha più a che vedere con la standardizzazione delle produzioni realizzatasi per effetto del progresso della tecnica che consente di produrre in Italia ed in Australia le stesse cose, con lo stesso evanescente sapore, che con il tam tam enogastronomico pur espressione, in larga parte, di quel marketing di cui ho appena detto.
A me non interessa, per la verità, se a Benevento, a Memphis e ad Adelaide piacciano le stesse cose perché il gusto è un’esperienza che ha a che fare con la mente oltre che con la lingua ed è evidente come, in un contesto di estrema facilità di interscambio culturale, sia possibile che maturino meccanismi cognitivi analoghi anche a distanza di migliaia di chilometri.
Mi interessa molto, invece, che la merda sia riconosciuta come non buona perché non può produrre piacere in nessun caso e quindi a prescindere dall’ingrediente usato per farla lievitare o per condire.
In questo senso credo non cesserà mai l’esigenza del racconto che spieghi ed esalti il piacere recato da quanto di buono contadini, macellai, casari, chef e chiunque altro sia in grado di elaborare. In questi tempi molto corrotti, anzi, l’informazione gastronomica dovrebbe essere incentivata anche per garantire la sopravivenza di quella enorme mole di cucine non stellate, veicoli distorie e piaceri semplici e sinceri.
Tam tam sia, quindi, ma libero e consapevole.
GUSTO E PIACERE
In un interessante articolo su ARTETECO il caro, fraterno amico Alessandro Paolo Lombardo, critico d’arte, video maker, giornalista e mio estremo confidente, discute criticamente il fenomeno food che ha invaso media tradizionali e nuovi, apprestandosi ad invadere anche il mondo artistico attraverso il grimaldello del food design.
Alessandro nella sua feroce critica giunge alla conclusione che, come avvenuto per il sesso la cui larga ostentazione ha prodotto un desiderio frigido e dunque inappagante, così l’iperdiscussione sul cibo “eccellente” produrrà un appetito senza fame, in un contesto di “culturalizzazione al servizio della disumanizzazione”.
Mi ha colpito, nel breve scritto di Alessandro, l’assenza della parola GUSTO. In una società (almeno quella occidentale, perché è di qui che stiamo parlando) che ha ormai soddisfatto il bisogno primario della nutrizione, il gusto è il lato umano dell’esperienza gastronomica.
Vi è senza dubbio nella discussione sulla cucina un eccesso di enfasi su concetti ideali ed ideologici che prescindono dall’esperienza edonistica del mangiare. Un’ipocrisia sempre più radicata costringe, infatti, a dover trovare giustificazioni etiche o morali a ciò che mangiamo con piacere o per piacere.
Il chilometro zero, ad esempio, cui Alessandro accenna, non a caso parlandone in termini di necessità, presumo da un punto di vista ecologico e morale, è una delle più potenti armi schierate contro il piacere della scoperta e della curiosità per ciò che non si conosce.
Bartolomeo Stefani, capocuoco alla corte di Mantova, nel XVII secolo stupiva gli ospiti facendo largo uso di prodotti fuori stagione e al termine del suo ricettario fa notare che « à certe occasioni ordino alcune cose, come per essempio sparagi, carchioffi, roviglia, ò piselli che vogliam dire, ne’ mesi di Genaro, e Febraro, e cose simili, che à prima faccia paiono contro stagione ma questo può sembrar solamente a chi non ha passato il fiume della Patria perché troppo gli piace il pane della Città natia. Costoro sappiano che chi ha valorosi destrieri e buona borsa, in ogni stagione trovarà tutte quelle cose, che io loro propongo, e ne’ medesimi tempi, che ne parlo». Destrieri valorosi e borsa piena, dunque.
Il piacere del cibo storicamente è sempre stato coltivato sulle tavole delle famiglie più abbienti che banchettavano, libere dalla necessità di mangiare, per stupire ed autocelebrare il proprio status. Bisognerà pur dirlo e dissipare il campo dalla mitizzazione dello street food, che fa schifo nel novanta percento dei casi, del mangiar bene a basso prezzo, dei piatti della tradizione che confondono la storia con il passato prossimo.
Il tam tam mediatico gastronomico contemporaneo, invece, si rivolge in larga parte ad un pubblico di massa che frequenta poco e male i ristoranti e che probabilmente non ha mai varcato la soglia di un ristorante stellato, assumento che la stella Michelin sia sinonimo di esperienza gastronomica di piacere superiore. Per pranzare nel miglior ristorante del mondo che pratica davvero una cucina legata al territorio (servendo anche muschi e licheni danesi) occorrono dai 200 ai 500 euro. Luoghi come questi, che sono i veri luoghi della cucina, producendo piacere e storia della gastronomia, non sono coinvolti dalla discussione di Alessandro.
Il cibo rappresenta un vero mercato globale perché tutti devono mangiare; l’enogastronomia è uno dei tanti ambiti in cui è commercialmente utile (de)formare la percezione di massa della realtà. Il tam tam mediatico mi pare inevitabile ed inevitabilmente corrotto da logiche commerciali. Prendiamo il caso (tutto italiano) del lievito madre. Oggi sarebbe possibile vendere merda se fosse fatta lievitare col lievito madre, tale è ormai la dissociazione tra buono e percezione del buono imposta dai media e dai “critici” assoldati dall’impresa.
Il banchetto della nausea, quindi, è già servito quotidianamente ed ha a molto a che fare con valori a-gastronomici e col marketing che ha assoldato schiere di giornalisti, cuochi, pizzaioli ed esperti.
L’omologazione di cui Alessandro, poi, parla a proposito delle polpette IKEA ha più a che vedere con la standardizzazione delle produzioni realizzatasi per effetto del progresso della tecnica che consente di produrre in Italia ed in Australia le stesse cose, con lo stesso evanescente sapore, che con il tam tam enogastronomico pur espressione, in larga parte, di quel marketing di cui ho appena detto.
A me non interessa, per la verità, se a Benevento, a Memphis e ad Adelaide piacciano le stesse cose perché il gusto è un’esperienza che ha a che fare con la mente oltre che con la lingua ed è evidente come, in un contesto di estrema facilità di interscambio culturale, sia possibile che maturino meccanismi cognitivi analoghi anche a distanza di migliaia di chilometri.
Mi interessa molto, invece, che la merda sia riconosciuta come non buona perché non può produrre piacere in nessun caso e quindi a prescindere dall’ingrediente usato per farla lievitare o per condire.
In questo senso credo non cesserà mai l’esigenza del racconto che spieghi ed esalti il piacere recato da quanto di buono contadini, macellai, casari, chef e chiunque altro sia in grado di elaborare. In questi tempi molto corrotti, anzi, l’informazione gastronomica dovrebbe essere incentivata anche per garantire la sopravivenza di quella enorme mole di cucine non stellate, veicoli distorie e piaceri semplici e sinceri.
Tam tam sia, quindi, ma libero e consapevole.