Stamattina per celebrare la festa dei lavoratori, che è anche la mia festa, ho tre lavori, mi sono alzato prima del solito e mi sono affacciato per bearmi della freschezza vibrante del primo mattino.
L’ho vista in lontananza, ne ho riconosciuto la sagoma, il portamento. La osservavo e rabbrividivo in silenzio, immobile. Mi è parso di sentire il rumore cadenzato e sordo dei passi agitati, l’affanno. Un ritmo che ha fatto da madleine proustiana e ipnotico sottofondo a ricordi dolci, tenerezze, armonia, passione.
Io e Irene abbiamo litigato poche volte, ma sempre con violenza verbale e fermezza incongrue al nostro animo morbido. Si direbbe con ferocia pari e contraria agli spasmi dei nostri cuori espansi dalla reciproca presenza, dall’esserci.
Non so se per opera della ragione o del sangue, del sentimento o dell’inconscio, i momenti bui, le bruttezze, le parole urlate sono trasportate via, rimosse, accantonate.
Stamattina la vedevo in lontananza e più la vedevo, più la riconoscevo, più si avvicinava e più era lei, più bella di quanto lo fosse da sempre, e più io restavo immoto.
Non so che espressione avessi, a ripensarci penso neutra o attonita o estraniata per l’ammirazione e l’ascolto figurato dei suoi passi e dei ricordi.
Sono convinto, però, che quando me la sono trovata sotto il balcone, ed era proprio lei, e dopo pochi istanti il trillo del citofono mi ha scosso senza agitarmi, avessi l’espressione esatta della felicità.
Non so quale sia, non la saprei riprodurre. Ma quel momento l’ha definita, se qualcuno trovasse una foto di me in quell’attimo potrebbe vedere come è fatta la felicità. E me ne sono accorto subito, così, prima di rispondere al citofono, mi sono fermato a dirmi: ricordalo questo attimo, è l’attimo in cui sei stato felice. Non ho scattato un selfie, non l’ho vista la felicità, ma l’ho sentita e me la sono appuntata, ho provato a cristallizzarla.
“Anto’, scendi?” Così m’ha detto, con un tono di tale naturalezza che sembrava avessimo preso appuntamento o ci fossimo sentiti poco prima e fosse concordato che mi avrebbe citofonato.
Non la vedevo da mesi e non la incrociavo nemmeno in azienda o negli uffici pubblici o nei locali del centro in cui mi ubriacavo e mi ubriaco ora in segreto, a porte chiuse.
Mi chiedevo di tanto in tanto se vivesse ancora qui o si fosse trasferita altrove. E questo pensiero, questa possibilità, reale per quanto mi aveva detto un giorno, era per me dolorosa come una spina d’agave. Un bruciore pungente, profondo, insopportabile. L’idea che fosse fuggita per dimenticarmi, per dimenticare noi o che fosse andata via con l’alibi del lavoro per abbandonarsi a una vita che di noi facesse una parentesi trascurabile.
Percepire le vene vibrare docili, essere accarezzati dal liquefarsi di grumi di tristezza nascosti chissà dove, avvertire steli di tenero verde diramarsi dal petto in ogni andito del corpo, figurarsi fringuelli e aquilegie, questa è stata la felicità.
Senza pensare mi sono trovato giù. A vederla sono rimasto fermo, di nuovo immoto, non per l’emozione ma per lo splendore. Non sapevo cosa dire e fare, nemmeno quello che volevo o desideravo.
O forse si, quello che desideravo si, che fosse venuta a prendermi, a occupare la mia casa e la mia vita. Per questo le ho detto, prima ancora di salutare, “sali”.
Continuava a muovere le gambe, camminando da ferma, “hai i capelli in disordine, stai bene. Se mi chiami mi fa piacere“.
L’ho vista tornare da dove veniva, allontanarsi, mentre tutti i colori, le tenerezze e le dolcezze di poc’anzi si ritraevano. Sono rimasto fermo non so per quanto con l’illusione di rimanere attaccato a lei, a quel momento, a quell’immagine.
Ho preso il caffè sul balcone, sperando di rivederla in lontananza. Aveva deviato o era corsa via.
Sul telefono 27 notifiche. Una era la sua: “che hai mangiato? io pasta con le zucchine fritte. Stamattina se mi avessi chiesto di salire, avrei fatto colazione con te.”