È successo, è successo davvero. A pochi chilometri da Benevento. Nel bel mezzo del territorio più vitato della Campania, tra i più vitati d’Italia, nel bel mezzo anche dell’anno che sarebbe quello del Sannio Falanghina Capitale Europea del Vino. È successo e lì da loro, in Veneto, non sarebbe mai successo. È successo, incredibile a credersi, mi si creda, però, in un’azienda vinicola.
In un ardente tardo pomeriggio di fine giugno, su un’aia e sotto un alberello, osservando il sole che si lasciava cadere lentamente dietro adespote cime, scure nel gioco dei controluce, attendevo l’estinguersi dei preparativi flemmatici e del ticchettio ronzante dei milleottocento secondi neo-borbonici che, qui a mezzogiorno, sono l’inevitabile preludio di qualsiasi manifestazione, quando mi hanno offerto un “prosecco”.
Col giusto ottimismo che disegna un contesto solo drammatico, ho voluto presumere fosse una falanghina spumantizzata, pur sotto mendace verbo, dovendo diversamente ipotizzare il tragico e pressoché senza rimedio scenario di un’azienda vinicola sannita con gli stipi carichi di Prosecco.
Siamo terroni, c’è poco da fare. Ignoranti, inconsapevoli, approssimativi, autodistruttivi, masochisti. Serviamo prosecco, che è un po’ incitare al Vesuvio.
Loro, invece, i veneti, sono bravissimi, così bravi da aver agito sul lessico e sulla semantica, sul significato delle parole, della parola, anzi, quella a loro più cara perché più profittevole: prosecco. Il prosecco è un’uva anche detta glera. Era un’uva. Prosecco era un nome proprio di cosa, insomma, oggi, invece, è un nome comune di cosa o di cose. Cosa? Qualsiasi intruglio spumante bianco a base d’uva servito all’ora dell’aperitivo. Prosecco è uno stile di vita, un colore, un’atmosfera, una moda, un mood.
Diamo a Cesare ciò che è di Cesare, ai Veneti ciò che è dei Veneti, il riconoscimento di un’opera di marketing probabilmente ineguagliabile.
Onesti nel riconoscere i meriti altrui, ammesso e non concesso che esista alle nostre latitudini un processo intellettuale di questo genere, però, non significa essere fessi.
Abbiamo un prodotto straordinario (la Falanghina), un territorio di una bellezza così tenace da resistere agli orripilanti manufatti mezzi intonacati e mezzi no, mezzi tinteggiati di verdolino sala operatoria e mezzi a pietra e mezzi ancora a mattoncini, una terra accogliente. Abbiamo migliorato negli ultimi trent’anni le nostre competenze produttive, creato un tessuto imprenditoriale agricolo, acquisito grande visibilità grazie a enologi di fama che hanno lavorato e lavorano con noi, abbiamo piccoli produttori che coprono anche il segmento dei consumatori più attenti alla sostenibilità delle produzioni, abbiamo creato il brand Sannio se non Sannio Falanghina, anche grazie all’opera casuale e confusa di sindaci viaggiatori. Forse è il momento in cui mettere insieme tutto questo e aggiungere quello che al contempo più ci appartiene per la storia e meno ci appartiene per la nostra faciloneria: l’identità! Ingrediente essenziale da spendere con orgoglio, fierezza e intento commerciale.
Conosciamo il prosecco, ma produciamo, beviamo, preferiamo e vendiamo Falanghina.
Da dove partire è presto detto e sintetizzabile con un ipotetico slogan: Aperitì? Falanghì!
È necessaria una sana e santa alleanza tra produttori ed esercenti, che purtroppo ancora oggi dialogano poco e conflittualmente. Se c’è un limite nell’azione delle associazioni, delle istituzioni, del consorzio di tutela negli ultimi anni è questo: aver lavorato poco per creare sinergie tra produttori ed esercenti locali.
È giunta l’ora della guerra, va emarginato il prosecco dalle proposte dei nostri bar, wine bar, enoteche. Il protezionismo, sappiamo bene, serve a nulla ed è il segno di una mentalità retrograda e perdente. Ciò non di meno, la costruzione di un’identità territorio-prodotto, supporto decisivo per il successo su mercati extraregionali, passa inevitabilmente per una forte sinergia tra gli attori di quel territorio, nella fattispecie il Sannio. E allora i nostri bar di default devono proporre Falanghina per l’aperitivo (la proposta di Apertì, Falanghì è giocosa ma ha un senso serio nella necessità di individuare una sorta di claim che tutti gli operatori del dettaglio possano utilizzare).
C’è un problema di conoscenza, di senso di appartenenza ma anche e soprattutto economico. Non si può ulteriormente assistere inermi a produttori che, per larga parte, guardano con sufficienza o di cattivo occhio i rivenditori locali e non praticano condizioni di riguardo, relativamente ai prezzi, alle consegne, alle anteprime. Non sarà mai dominante fuori le mura un prodotto che non riesce ad essere leader dentro le mura.
Parlando di mura viene in mente la storia. Abbiamo la possibilità di vendere, storia, paesaggio, prodotto, non possiamo vendere prosecco.
Articolo apparso sul Sannio quotidiano di lunedì 1 luglio 2019