Non avevo paura da 38 anni.
Houston, Texas. Md Anderson Cancer Center. I raggi X attraversano, fettina per fettina, i miei polmoni, intoppando in due microqualcosa oscure, nere. Due macule ancora troppo piccole per poter essere classificate metastasi. Ma anche troppo minute per accoglierle con sospiro benigno e liberatorio.
Minuti, giorni, settimane, mesi passati interamente, almeno così sono archiviati in memoria cosciente, nel vortice solitario e angosciante della TAC. Attenderne la crescita per capire e morire.
Furono quei tre mesi gli ultimi attimi, giacché furono mesi scanditi in attimi, della paura. Passò per sempre il giorno in cui la scansione dei polmoni, millimetro per millimetro, non incespicò più quelle chiazze nere. E nessuno ha mai capito cosa fossero e perché scomparvero ovvero perché erano apparse per mesi e d’improvviso svanite.
Mia madre, con mio biasimo, parlò di profumo di fiori e Padre Pio.
Non ho mai più avuto paura da allora. Da allora e fino a martedì scorso.
“Tampone antigenico positivo”. Così l’oggetto a caratteri cubitali e senza grazie, mai più appropriati, della mail visualizzata sul cellulare.
Stravaccato e impaurito. La riapparizione dello sguardo terrorizzato di papà, chiuso nel casco giallo, senza le forze per strapparselo, come tentava.
L’evocazione di una solitudine involontaria, coartata, anzi, muta e disperante. La posizione supina fissa, inaccettabile per la pelle fragile della gamba di cui, giustamente, nessuno si prenderebbe cura. Ultimo dei problemi di un paziente in terapia intensiva. Per me vivo, però, il primo.
Non ho avuto il coraggio di scriverlo ad Anna Stella, l’ho detto a un’amica: se dovessero intubarmi, fatemi morire senza crudeltà. Non voglio essere tracheotomizzato.
Tre dosi di vaccino. I sintomi, un giorno dopo l’altro, che si manifestano tutti. Almeno i più innocui, sebbene fastidiosi. Mal di gola, raffreddore, spossatezza immane, tosse, febbre, mal di testa, di nuovo mal di gola. Ma, ora come allora, i polmoni sono liberi, il sangue è ossigenato.
Non è una banale influenza. Almeno per me. Soprattutto perché ogni giorno si presenta un sintomo diverso, e sale l’ansia. Non sai mai cosa attendere per il giorno successivo, per la notte imminente. E poi i farmaci. Tanti, necessari, utili, tossici.
La prospettiva del reparto dai mille monitor, diecimila bip, un miliardo di fatica di medici e infermieri, questo è la terapia intensiva, è sempre più dilatata. Distante, sfumata. È sfumata, allora, anche la paura. Un nonnulla rispetto a quella trapassata, ma mai dissolta.
Il Covid, paradosso, uno dei tanti di questa malattia, mi ha riportato la socialità, la prossimità emotiva. È cessato di schianto l’isolamento spontaneo dei faticosi mesi passati. Benché alieno per la necessaria quarantena, arrivano i messaggi degli studenti. Ricevo amici, al telefono e fuori la porta di casa. Interlocuzioni interrotte, o forse rotte, riattivate dal virus. Il suo lato positivo.
E i doni. Le introvabili e di perfetta fattura caciotte di pecora, i sughi, i dolciumi, i pasticcini. La torta del compleanno che ho disertato (c’è una giacca, vanitosa quanto me, incazzata. La sento dimenarsi, lamentosa, nell’armadio), il dolcino preferito, frutti di bosco e cioccolato, dalla pasticceria cult, anche nota come bar più bello d’Europa e redazione (è lì che nacque Sonar).
In tutti questi fagotti e pacchetti ci trovo il segno di una premura. Il dettaglio che spiega la cura nella scelta, il pensiero amorevole. La partecipazione, il coinvolgimento, l’affetto, insomma.
Il mio covid è un festival di umanità e gastronomia.
Photo by Sharon McCutcheon on Unsplash