Tempo di crisi, tempo di guerra per le attività economiche, aguzzare l’ingegno ed attrezzare strategie è diventa questione di sopravvivenza. Mentre i media raccontano degli scaffali pieni e dei carrelli vuoti dell’ultima settimana del mese, i ristoratori devono comunque riempire la sala. Bella impresa, ardua; bisogna invogliare le persone ad uscire, a sedersi a tavola e, soprattutto, a pagare il conto.
La questione, ovviamente, si presenta diversa a seconda del tipo di offerta scelta dal ristoratore. Gli estremi si toccano, non fa eccezione la ristorazione. Ai due poli ci sono i ristoranti che puntano sulla formula “ok, il prezzo è tutto” e sono identificabili, per grandi linee, in due formulazioni. Formulazione A: basso prezzo, tovaglia di stoffa, tovaglioli di carta, piatti, bicchieri e posate Ikea, sala annebbiata e tinteggiata da un paranoico sudato, appassionato dei colori caldi, servizio familiare, per usare un eufemismo, gusto insulso, al più, vino della casa, pancia piena se va bene, notti insonni o passate attaccati alla canna dell’acqua; formulazione Z, opposta ma analoga: prezzo alto, tovaglia linda finta fiandra, posate silverplate, servizio finto chic, piatti macro che contengono pietanze misurate in microgrammi, gusto international anche detto di zucchina lessa, vino da lieviti iperattivi al punto da aver fatto lievitare anche i ricarichi, pancia semivuota e portafoglio pure. Dov’è l’analogia si direbbe. È nella volontà di rivolgersi ad una clientela che dal prezzo trae tutte le indicazioni necessarie alla propria scelta: spendo poco e mi sazio, dunque è tutto buono; spendo molto e mi sazio di vanità, dunque è tutto buono. Queste due tipologie di offerta, tranne piccoli ritocchi, fanno una guerra di retroguardia, se la cavano senza grossi rischi.
In mezzo c’è l’inferno della trincea. La ristorazione media, la vera , grande ed inimitabile ricchezza gastronomica del paese. Quella dei cuochi che cucinano con passione e cura, che escono in sala un po’ stravolti alla ricerca dell’ospite che li gratifichi oppure li critichi ma soprattutto di quelli che si sforzano di comprendere. I cuochi che vanno a fare la spesa, tentando di far quadrare i conti pur scegliendo il meglio, il fresco, il buono, i cuochi che si sfiancano in cucine mai troppo spaziose, tra fuochi, pentole, coltelli e poco personale. La guerra di trincea è dura e lascia ferite, qualcuna mortale. E’ successo tristemente ad almeno un paio di miei punti di riferimento, stabili per anni, chiusi da qualche mese.
Queste sale sono frequentate da pance non casuali, palati cognitivi, mani addestrate a far roteare i calici, talora anche da olfatti allenati. Qui ogni sera si giocano terribili ed esiziali battaglie. Bisogna far mangiare bene, variare i menù, mantenendo possibilmente in carta qualche piatto che possa identificare il locale stabilmente, avere una cantina assortita ma i ricarichi contenuti. La quadratura del cerchio è sempre più difficile, ed allora che succede? Entra in gioco la cultura, del gusto in questo caso. Fioriscono le serate a tema. Oramai, si faccia caso, si passa con nonchalance dalla serata sulla carota di Polignano a quella sulla piattella canavesana (un fagiuolo piemontese), da quella sul conciato romano a quella sul culatello di Zibello. Il produttore talvolta è annunciato come ospite ma parla poco. Sostanzialmente, traducendo in soldoni, si tratta di serate a menù fisso e prezzo da cena a la carte, con il che l’oste ottimizza i costi e massimizza i ricavi. Non è un menù fisso turistico, orrore, ma un menù fisso culturale. Si parla di territorio, prodotto, qualità, contadino e campagna bella e amica. E’ una cultura “alka seltzer”, rende digeribile anche un conto che per un menù fisso non saremmo mai disposti a pagare.
Ecco dimostrato, dunque, che con la cultura si mangia, in tutti i sensi.