Un’immensa area, grande quanto undici campi di calcio, colorata e animata da 1200 produttori di circa 100 paesi, tutto il mondo o poco meno rappresentato.
Colori, odori, sapori, forme, mani e facce di montagna, di pianura, di collina, sempre di campagna, ruvide e genuine, con i solchi dei venti, del sale, del sole. La gioia a prevalere sui volti, nelle relazioni, nei movimenti di tutti, visitatori, espositori, organizzatori.
Il Lingotto, l’ex fabbrica di scatole di acciaio motorizzate, gli spazi della catena di montaggio si umanizzano e regrediscono ad un’epoca preindustriale, quando l’agricoltura apparteneva agli agricoltori.
E questo del resto è il messaggio che Nino Pascale, presidente di Slow Food Italia, non si stanca di ripetere: valorizziamo l’agricoltura degli agricoltori.
Il Salone del Gusto è stato, per gli oltre duecentomila visitatori, un’occasione per scoprire gusti, conoscere e parlare con i produttori, farsi raccontare caratteristiche e segreti di coltivazioni, allevamenti, lavorazioni.
Sensazioni e conoscenze di chi è stato al Lingotto tra il 23 ed il 27 ottobre scorsi saranno state evanescenti, al pari un qualsiasi aroma che per quanto persistente è destinato a svaporare, o piuttosto si può pensare che esser passati di lì possa aver contribuito ad un apprendimento e quindi ad un arricchimento?
Ogni volta che lo sguardo schivava istintivamente i banchi promozionali di alcuni marchi, di cui tutto si può pensare fuorché siano portatori di una cultura slow, legata alla terra, alla biodiversità e all’agricoltura familiare, cresceva il sospetto che le conferenze, gli spazi educativi, le belle parole, il multiculturalismo ostentato potessero essere il complemento ipocrita allo scambio di vil pecunia in un mercato di ricercatezze. Il solo nome di alcuni sponsor creava disorientamento ben maggiore della folla dispersa eppur serrata nei capannoni squadrati e senza punti di riferimento.
Chi, tuttavia, non si fosse lasciato irretire dalla diffidenza e si fosse sbattuto tra le svariate attività della kermesse torinese, potrebbe condividere l’idea che restano ben tangibili, dismessi i banchi, i palchi, i fornelli, alcuni elementi che provo qui a riepilogare.
Sincerità: Petrini e Pascale hanno confermato con vigore i principi e gli obiettivi, spesso scomodi e controtendenti, di Slow food, in confronti, talora anche aspri, con politici, esponenti di confederazioni, consorzi, aziende della grande distribuzione.
Unicità: il Salone ha dato visibilità a micro realtà, culture e colture che il mainstream non prenderebbe in considerazione manco per attività folcloristiche.
Conoscenza: la diversità estrema di punti di vista, tecniche, prodotti, persone ha inevitabilmente ampliato le conoscenze di chiunque abbia visitato il salone non passivamente.
Curiosità: le monache buddiste di Corea che hanno illustrato, con la propria salsa Jang, una sorta di gastronomia mistica, scatenando curiosità su religione, alimentazione vegetariana ed etica. Non è ardito pensare che molti visitatori siano tornati a casa con la voglia di approfondire temi, pratiche, filosofie di cui hanno visto e sentito al Lingotto.
Piacere: impensabile anche per un addetto ai lavori ciò che si poteva assaggiare, degustare, comprare, mangiare e bere con piacere quasi estatico delle papille gustative. Dalle ostriche olandesi, ai formaggi d’alpeggio, dall’impronunciabile dolce ceco al pesto di mandorle di Pantelleria, dal carpaccio di baccalà ai sashimi giapponesi.
Non è possibile chiudere questa tappa dell’Odissea Gastronomica senza indicare quello che è rimasto nella mia personale arca del gusto:
- La salsiccia al coriandolo di Scherzerino La Rocca (www.scherzerino.it);
- il bitto storico prodotto invecchiato sino a 20 anni (www.formaggiobitto.com);
- i blu di capra e la robiola di Castagna (www.castagnasrl..com);
- i pesti e l’uva moscato passita di La Nicchia (www.lanicchia.com);
- la ricotta salata e affumicata di Picciau (www.picciauformaggi.it).
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