Esseri umani smartphonizzati si intruppano a mo’ di pecore in gregge (non ce ne vogliano le pecore), mentre menti visionarie ambiscono a dare cervello alle macchine.
L’uomo connesso alla rete informatica, insomma, disattiva le reti cerebrali. Si “androidizza”, diventa un automa e segue le istruzioni degli influencer, negli stessi attimi in cui alcuni geni lavorano per dare ragionamento e creatività umani (o già umani) alle macchine.
La rappresentazione di questo paradosso si trova nella moda milanese di fare colazione in locali promossi su TikTok e Instagram.
Da Loste, per esempio. Un brand i cui locali sono riconoscibili, più che dal marchio, dalla fila per ritirare o mangiare, in spazi strettissimi e mediamente scomodi, cornetti, brioche e cinnamon roll di dubbio gusto e qualità o, almeno, senza particolari qualità. Viene così da pensare che la moda non sia tanto fare colazione in questi locali, ma fare la fila. Intrupparsi. Fare gregge. Pecore che rincorrono mediocri cinnamon roll. Opportunamente fotografati, geolocalizzati, selfati, taggati. Smartphone sospesi a piombo e gomiti che si urtano sopra i microtavolini tipici di questo genere di ambienti.
Fuori, una città che offre alcune delle migliori pasticcerie d’Italia, un numero imprecisato e spropositato di bar che servono ottime brioche in sale di ogni bellezza. Ambienti eleganti, informali, moderni, minimal, popolari. Tutto lo scibile.
A essere onesti, la moda di fare la fila non è solo milanese. La si trova a Roma per modeste cacio e pepe spacciate in rete per le migliori della capitale, a Napoli per le pizze fritte o le sfogliatelle, a Palermo e Catania per gli/le arasncini/e.
La bravura nel promuoversi in rete dà alla testa agli artefici di questi successi commerciali. Successi cerebrali del marketing, anzi: instupidire, indurre gli uomini a farsi pecore. E poiché la pecora è mansueta, la si può e deve sottomettere. La pecora ne è felice. Da qui il tono presuntuoso degli inservienti.
Da Loste, per esempio, il cappuccino è servito senza zucchero (forse per compensare il gusto stucchevole dei dolci serviti). Non ancora del tutto automizzato o disponibile a considerare sublime un pasto a prescindere dal sapore e sol perché “likkato” da migliaia di pecore, l’astante che chiede di avere un po’ di zucchero è redarguito: «consigliamo di provarlo senza zucchero perché il nostro latte è già bello corposo». Come se corposo fosse sinonimo di dolce.
Invero, il sottotesto suona qualcosa del genere: il suo palato non comprende la superba raffinatezza del luogo. Non ha forse notato la cura e il movimento fluido danzante con cui il musico dietro il banco ha schiumato il latte? Non ha colto il senso di materia esclusiva, di latte speciale che quella gestualità coreografica e il bricchetto retrò intendono comunicare? Vuole devastare tutto ciò con una volgare gittata di zucchero?
«Ad ogni modo, la zuccheriera è alla cassa». Ciò che è vietato ai comuni esercizi è qui ammesso, anzi, è speciale. Avere una zuccheriera comune è il segreto che alcuni resistenti bar, per lo più di paese o periferia, celano agli occhi di ogni polizia sanitaria. Qui è scena.
Sotto il passaggio di migliaia di braccia, giace il vasellame. La zuccheriera è comune non al tavolo ma al locale intero. La dolce polvere va estratta col cucchiaino e portata la tavolo, acrobaticamente attraversando singoli e folla, tentando di non far cadere i granelli.
Che chiccheria!
ps Si legge sul sito: «L’ obiettivo è quello di offrire un’esperienza unica, in quanto dettata dalla nostra visione ed il nostro approccio». Il latte è corposo, la grammatica un po’ meno.