Lo so, è altissimo il rischio che le prossime righe siano lette, ammesso che qualcuno possa mai leggerle, come un atto estremo di egocentrismo. Lo corro. È il mio compleanno. Reclamo indulgenza o almeno l’attenuante del giorno di festa.
Compio X6 anni. Sono molti di più e molti di meno.
X6 anni tempestosi come si addice alla vita che sia tale. La separazione complicata (eufemismo) dei miei, un tumore molto aggressivo e violento in adolescenza, il matrimonio, le figlie nate, il figlio perduto. Questi alcuni attraversamenti che fanno valere X6x100 i miei X6 anni.
Poi, però, c’è il fatto che io non sono mai cresciuto del tutto. La pelle chiara e liscia, la peluria rossa, sottile e tenera, le vene sottili sono le stesse dei 16 anni. È così sono i miei sentimenti, il mio stare al mondo, il mio entusiasmo perennemente adolescenziale.
Dicono, e io stesso lo dico, che sia un cacacazzi. Ed è vero. Col tempo mi sono reso conto che essere cacacazzi dà fastidio non perché disturbi o conculchi interessi. Io sono sempre disinteressato alla materialità nelle mie manifestazioni. Agisco spesso contro i miei interessi, anzi.
Il cacacazzi infastidisce perché esserlo implica essere giovani, scapigliati, sfrontati, energici. Insomma, implica condizioni che i più perdono col passare degli anni. Quella che si chiama saggezza non è altro che l’acquietarsi. Io resto inquieto.
È inspiegabile, come, del resto, lo è essere arrivato alle X6 candeline. Qui devo aprire una parentesi patetica. L’osteosarcoma osteoblastico è un tumore letale. Muoiono quasi tutti. Io stesso ho visto morire quattro dei sei ammalati italiani che erano come me in cura a Houston, al MD Anderson Cancer Center.
Quattro su sei sono morti.
I medici che saltuariamente incontro, quando leggono l’anamnesi hanno sempre la stessa reazione: cazzo, sei vivo. E cosa dovrei curarti adesso, è già tanto che sei qui dopo tanti anni. E cammini pure. Ma che vuoi? È una delle parti parti simpatiche dell’essere sopravvissuti all’osteosarcoma.
In effetti, non voglio nulla. In fondo, sono disincantato nel pensare alla morte. E questo dà, in genere, molto fastidio ai sani. A quelli che sono stati ammalati poco e di piccole cose.
Non era scontato, insomma, che arrivassi a X6 e che avessi ancora voglia di festeggiare, di esultare, stappare, abbracciare. E, ormai, non è scontato o lo è meno del solito, arrivare al compleanno successivo. Ogni tanto muore qualche coetaneo ed è inevitabile pensare, ancor più normalmente del solito, che si muore, ci tocca morire. Ci tocca sopportare l’assenza permanente e irreversibile di qualcuno finché non toccherà a qualcun altro sopportare la nostra irreversibile assenza.
Intanto, io la penso cosi: ho sfiorato la morte avendo vissuto pochissimo e non avendo ancora amato carnalmente, il che, a 16 anni ha un certo rilievo. È, dunque, opportuno vivere, ossia lottare, dimenarsi, agitarsi, correre, amare ogni istante che si ha a disposizione finché ci sia un nuovo istante. In realtà, non sapendo quale sarà l’ultimo istante, ciascun istante è ultimo. E bisogna bruciarlo.
Buon compleanno a me.
Ho scritto questa lettera nella notte tra il quattro e il cinque luglio. In realtà non so se arriverò all’otto. Sto bruciando, insomma, un istante, prima che esso si manifesti e giunga. Vado veloce. Fotto il tempo. Almeno ci provo.
PS Sono arrivato all’otto.