Peperoni, peparoli, puparuoli ortaggi estivi, al vertice opposto a quello delle insipide zucchine sull’immaginaria semiretta dei sapori.
“La semiretta è una retta che ha un inizio e non ha una fine” mi ha spiegato l’altro giorno Irene, aristocratica e sublime donna, splendida Ipazia contemporanea, passa senza alcun eccesso d’enfasi dalla filosofia, alla matematica, ai calici di vino, all’ammaestramento dello sfrigolio di peperoni in padella. Alludeva appunto ai peperoni, alla loro mutevolezza di stato e sapore che definisce di volta in volta un diverso timbro percettivo. Invadente, dominante, imperioso con croccantezza e pungenza quando è crudo, sensuale, seducente, allusivo quando l’arrostitura l’ha reso lubrico e dolce, ipocrita, lustreggiante e lussureggiante quando dell’olio caldo di frittura brillano e fremono le sue pelli brunite, la carne morbida e il sapore sprigiona una sinfonia di suoni di corde fini e delicate, di più cupe funi, di ottoni amarognoli.
Il peperone contiene accenti e tempi musicali, sincopature, crescendo, diminuendo, ma anche alchimie barocche dell’erotismo e della lussuria. Forse per questo un tempo gli furono accostati gli aggettivi volgare e plebeo, sbagliando nel limitarsi a considerare il loro modesto costo e quindi il diffuso uso presso gli uomini più umili. È plebeo ciò che è semplice; è volgare ciò che è falso e ignorante.
Prendiamo i peperoni fritti. La complessità parte dai colori, passa per dal taglio, arriva alla cottura, si intrufola in bocca, finisce con la pepsi.
Di plebeo non v’è nulla e nemmeno di volgare. L’olio addensato dalla linfa rilasciata durante la cottura, colorato dalle particelle di sole restituite dalla polpa, insudicia le dita, impregna il pane, corrobora il palato. Il giallo, il rosso, il verdastro riempiono gli occhi prima di sovreccitare anche la più moscia papilla gustativa. I futuristi parlavano di piacere prelabiale delle pietanze e ricorrevano a ingegno filosofico, pittorico, architettonico per costruirlo; il peperone fritto lo contiene in se, col mix di sfavillii colorati che rimbalzano sui nostri corpi, sulle pareti, fino al cielo, quando dalla padella li si afferra per posarli su un letto di pane.
Il profumo stesso non è semplice, vi appare sempre l’accenno di contrasto, qualcosa che oltre quella misura indefinita e minima sarebbe addirittura sgradevole, ma che lì, nei peperoni e coi peperoni fritti è solo un’esaltatore di piacere olfattivo.
Irene dice che occorre sapienza per per preparare pane e peperoni fritti, coscienza per mangiarli, palato sessuato per gustarli.