Il gigante trema quando le pendici in cui affonda i suoi piedi smottano.
Il Taburno, o meglio, il tratto del Massiccio che circonda il Monte Pentime, sul lato Est, quello che sta giusto in mezzo tra la Valle Telesina, la Valle Vitulanese e quella Caudina. I media nazionali non ve ne parleranno mai: questa è una storia di pietre, piccoli greggi, famiglie, semi, grano e patate.
Mi ricordo ancora quando andai a girarci un piccolo cortometraggio. Io amo parlare delle storie contadine: mi completano, mi arricchiscono, in qualche modo mi restituiscono quell’identità umana che devo perdere nel cosiddetto mondo reale. La verità, quando posso sfogarmi liberamente, è che credo che il mondo reale sia qui, nei costoni in cui si arroccano i paesi di Campoli, Tocco Caudio, Cautano, Vitulano, Foglianise o, dal lato della Valle Telesina, Solopaca, Paupisi, Ponte e Torrecuso.
La fantascienza ci ha regalato Second Life e non sto parlando di avatar e moneta virtuale, ma di un sistema di stimolazioni neurosensoriali (per dirla alla Matrix) in cui crediamo di poter essere professionisti, scienziati, esperti, lovers, haters, star, followers, trendy e tutto quanto il digitale ha a disposizione per aiutarci a definire la nostra illusoria immagine del sé. Ma è vero anche quello che dicono gli amanti della montagna: non c’è contesto più scarnificante della roccia, per tirare fuori quello che sei. L’ho provato in un percorso natura dove persino un cucciolo di daino avrebbe resistito più di me.
Questa infatti è la storia di un torrente, lo Jenga, e dei paesi che lui continua ad attraversare, nonostante i secoli e qualche invasione cementizia di troppo. Il torrente che qualche giorno fa ha esondato, trascinato dai suoi fratelli rigagnoli e rivoletti, incazzati come non mai per un’alluvione di quelle che non si vedeva da decenni.
E così la storica città di Benevento sprofonda per metà nelle acque che si sono portate via tutto: auto, container, capannoni (quintali di merce stoccata in magazzino o pronta per partire e persa per sempre), trascinandoli lungo il corso del fiume Calore, che ha poi proseguito la sua furia fino a travolgere Ponte e altre località della Valle Telesina, tra le quali Solopaca e la sua storica Cantina Sociale, ma anche devastando le vigne di alcuni dei soci del Consorzio di Tutela dei Vini del Sannio.
Faccio una ricerca per sondare lo stato delle aziende dei produttori soci o recensite nelle guide Slow Food (anima gemella del mio io bipolare) e non c’è bisogno di fare una conta. Praticamente bisogna includerli tutti.
Luigi Marotti, quando l’acqua rientra nel letto e libera via Ponticelli, a Benevento, tira fuori mobili e attrezzature e guarda i muri fradici di quel che resta della sua enoteca. Giusy Rapuano, i cui vigneti sono stati ingoiati da una frana che si è fermata a pochi metri dalla sua cantina a Paupisi, scrive su Facebook che non riuscirà più a smettere di avere paura. La gente si precipita in uno shopping sfrenato dei rigatoni di un grosso pastificio locale, mentre parte l’operazione Made in Sannio in cui si censiscono tutti i danni del tessuto imprenditoriale della provincia.
Allora cerco Gaetano, il mio inviato speciale dalle remote piane montane. Ha appena finito di spalare fango dalla casa di suo suocero. Gli chiedo come stanno i Forgione della guida “Fare la spesa”, lui va alla loro bancarella al mercato di Foglianise e glielo chiede: i terreni costeggiati dallo “Jenca”, per l’80% seminati ad ortaggi nella parte più a valle, sono stati distrutti, ma si dicono fortunati. In quei campi, al momento, non si può nemmeno andare, a causa di solchi profondi, scarpate, detriti di ogni genere.
So dei pastori di Frasso (Telesino, ndr) – continua Gaetano – quelli che ci davano il latte per le “giornate”. Dante ha perso l’ intero gregge, 250 capi e i cani custodi, portato via dai torrenti che hanno scavato e portato a valle quantità impressionanti di materiali. La cosa sconcertante infatti è la massa di pietre, pietre pesantissime e grandi che l’acqua è riuscita a muovere, ricoprendone persino gli arbusti di diversi metri di altezza, ora piegati sotto gli insoliti fermacarte rocciosi.
Alcuni vitelli di zii Luigi, quello della cagliata, hanno fatto le stessa fine. Angelo, il figlio di Giovanni Auriemma (allevatore e ristoratore, ndr) è stato travolto dalla piena del torrente esondato a Solopaca, salvato dai carabinieri per miracolo. Macchina distrutta.
Gaetano si riferisce a “Che bella cosa è na jurnat’e latte”, la manifestazione della condotta Slow Food Taburno e Valle Caudina, che senza futili celebrazioni è semplicemente una storia di resistenza contadina, talmente contadina che più contadina di questa si muore.
In sostanza, il formaggio sul Taburno è un vero e proprio mercanteggiamento.
La trattativa la fanno le famiglie dei paesi di valle e vede come imprescindibile controparte i pastori con i quali si negoziano “le giornate di latte”, ognuna delle quali corrisponde a una o più “mesure” ossia 12 litri di latte ovino, caprino o vaccino. Sono le “casare” a salire in montagna per contrattare: una volta stabilito quanto latte comprare, corrispondente ad un certo numero di giornate di lavoro, la donna torna a valle e nei “pagliari” dà luogo al prodigio che noi conosciamo col nome di caseificazione.
Slow Food ha ricostruito una di quelle jurnate e permesso ai soci di partecipare alla produzione del formaggio, fatto col latte dei pastori, da una vera mestierante del cacio, nello specifico “zia Maria, la meglio casara che ci sia”, in un giorno di maggio del 2013 ancora abbastanza fresco, a 1000 metri di altitudine.
Questo è quanto.
Verrà un giorno in cui la vera notizia sarà che anche questa tradizione è stata salvata, ma non è ancora tempo. Per adesso, queste storie possono raccontarle solo quelle come me, che vanno in Irlanda a vendere vino industriale e poi si lanciano sulle scogliere dove le pecore razzolano libere sull’oceano. Perché io amo le pecore, e posso finalmente confessare che per stare in loro compagnia, nei momenti placidi in cui tutto ciò che c’è da fare è ruminare, sono letteralmente arrivata in capo al mondo (Capo delle Pecore, per l’esattezza).
Inquinare i pozzi